Vivere in digitale: ripensiamo le relazioni al tempo dei social network
C’era una volta un mondo analogico, dove ogni azione era concreta, ogni interazione umana fatta di presenza, sguardi e voci; era un mondo diverso, forse più complicato ma meno complesso. Al di là di un mero confronto fra passato e presente, apriamo una riflessione sul tempo attuale, quello in cui viviamo: il nostro mondo post-moderno, globalizzato, digitalizzato. Abbiamo superato le barriere dello spazio e, per certi versi, anche del tempo se pensiamo che in pochi istanti possiamo scambiare informazioni con l’altro capo del mondo, assistere a riunioni di lavoro, eventi pubblici e privati, vedere amici e addirittura effettuare consulenze e prestazioni sanitarie, tutto da remoto con l’ausilio di dispositivi facilmente accessibili come un personal computer, un tablet o uno smartphone. Proprio lo smartphone ha rivoluzionato l’universo comunicativo e l’accesso alla tecnologia informatica, rendendola facile, veloce ed intuitiva anche per le generazioni meno giovani. Si fa presto a parlare di dipendenza da questo strumento, si fa presto a pensare (e spesso tristemente a constatare) che abbia sortito l’effetto opposto al suo intento originario, ossia allontanare le persone piuttosto che avvicinarle. C’è un sentimento diffuso, quasi un luogo comune ormai, che vuole i più giovani come intrappolati nella rete di interazioni virtuali, orfani di sentimenti autentici, schiavi di immagini filtrate all’inverosimile e di popolarità effimera. È innegabile che l’avvento dei social network abbia conferito alle relazioni umane una dimensione totalmente nuova e inesplorata e che spesso i ragazzi siano vittime di dinamiche pericolose. I fatti di cronaca talvolta ci ricordano quanto sia vulnerabile la mente di bambini e adolescenti e quanto sia facile per malintenzionati irretirli e far loro del male. Spesso però il focus del dibattito sull’impatto dei social network e più in generale delle tecnologie informatiche, perde di vista un elemento essenziale, di cui una riflessione critica sui nostri tempi dovrebbe tener conto, ovvero l’irreversibilità della digitalizzazione delle interazioni sociali, l’impossibilità di ricreare un mondo in cui relazioni e rapporti si configurino nell’esclusiva veste analogica e, dunque, la necessità di accettare queste nuove dinamiche che pervadono la nostra epoca. Detto in altre parole, non sarà più possibile, per la quasi totalità di noi, concepire un’esistenza in cui i nostri rapporti interpersonali non passino per un servizio di messaggistica istantanea, che un rituale di passaggio come la celebrazione di una nascita, della laurea o di un matrimonio non passi, anche involontariamente (vedi l’amico o il parente dal tag facile), sotto la lente dei social network. Siamo esposti al mondo virtuale continuamente, anzi vi siamo completamente immersi, mentre pensiamo che siano solo i più giovani, la generazione Z, ad esserne dipendenti, non ci accorgiamo di essere noi tutti sostanza di quella dipendenza. I comportamenti si apprendono e le abitudini spesso sono frutto di imitazione, noi adulti abbiamo in mano uno smartphone dal momento in cui apriamo gli occhi per silenziare la sveglia e continuiamo per tutto il giorno a dipendere da esso, ad ogni notifica, ogni ricerca di informazione, ogni tentativo di connetterci con gli altri; un bambino o un ragazzino che agisce nello stesso modo non fa altro che replicare i comportamenti degli adulti di riferimento. Nei recenti periodi di isolamento e restrizioni dettate dalla pandemia da SarsCov2, possiamo dire con certezza che quasi tutte le nostre interazioni sociali siano passate attraverso lo schermo di uno smartphone e i megabyte di una connessione internet, che senza questi strumenti forse saremmo impazziti di solitudine, che forse ad usarli bene questi social così male poi non sono. Senza voler cadere nella retorica, i social network non sono la radice del problema, essi sono solo una cassa di risonanza di una cultura in evoluzione, amplificatori di disagi collettivi, lo spazio in cui ci si rifugia quando si è spaventati dalla rapidità degli eventi che ci circondano. Pensiamo a chi in cerca di rassicurazioni su un tema caldo come quello della pandemia, si imbatte in fake news, che sia giovanissimo o attempato, proverà a dire la sua commentando un post attinente, suscitando nel lettore “passante” altrettanti sentimenti di incertezza, forse paura, talvolta rabbia. Da qui gli inneschi per discussioni violente, diseducative e disinformati. C’è una crisi di valori in atto di cui i social sono solamente la cartina tornasole, i più giovani sono soltanto i più esposti ai rischi della rete, ma siamo tutti coinvolti in egual misura in questo nuovo assetto sociale digitalizzato. Una ricetta per vivere e fare bene nei contesti virtuali non c’è. Queste piattaforme esistono da un paio di decenni, l’umanità civilizzata da migliaia di anni, forse un giorno i comportamenti adattivi positivi predomineranno quelli disadattivi anche negli spazi online, ma ci vorrà tempo. Tempo per capire come sviluppare al meglio le piattaforme sociali del futuro, per gestire in maniera critica e nel rispetto della libertà di parola ed opinione la circolazione delle informazioni e soprattutto per integrare in maniera equilibrata interazioni virtuali e reali. Siamo al punto di partenza, dopo essere giunti al traguardo di un mondo digitalizzato, la strada da percorrere potrebbe non essere semplice, ma i vantaggi del vivere nella nostra epoca continuano a superare gli svantaggi. Uno smartphone è solo uno strumento, nelle nostre mani può essere una miniera di possibilità sociali e di informazioni o un mezzo per incentivare idee e comportamenti dannosi per noi stessi e gli altri, tutto dipende dall’uso che ne faremo. Da persona impegnata nel campo dei servizi educativi mi piace pensare che la scuola, in quanto istituzione, rivestirà un ruolo sempre più centrale nell’insegnare alle nuove generazioni il modo adeguato di relazionarsi con gli altri, non soltanto vis-à-vis ma anche dallo schermo di un dispositivo digitale.